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Stordito, Miles si lasciò trascinare fuori dalla porta. Se era alla morte che andava incontro, voleva almeno affrontarla da sveglio, per sputarle negli occhi un’ultima volta, prima che il buio si richiudesse su di lui.

CAPITOLO NONO

Per Miles fu un sollievo temporaneo, vedere che lo facevano salire e non scendere… anche se potevano benissimo ucciderlo in un altro posto che non fosse il garage sotterraneo. Ecco, Galeni potevano ucciderlo in garage, per evitare di dover trasportare il cadavere, ma il peso, per così dire, morto di Miles non avrebbe certo presentato le stesse difficoltà logistiche.

La stanza in cui lo fecero entrare era una specie di studio o ufficio privato, molto luminoso nonostante le finestre polarizzate. Lungo una parete, c’era uno scaffale trasparente pieno di dischetti e in un angolo una consolle di comunicazioni, il cui olovideo in quel momento mostrava un’inquadratura a grand’angolo della cella di Miles. Galeni era ancora a terra, svenuto.

L’uomo che la sera prima aveva diretto il rapimento di Miles era seduto su un panchetto con il sedile imbottito color beige davanti alla finestra ed esaminava una siringa ipodermica che aveva estratto da una valigetta aperta al suo fianco. Interrogatorio, dunque, non esecuzione. O forse interrogatorio prima dell’esecuzione… a meno che non intendessero semplicemente avvelenarlo.

Miles distolse lo sguardo dalla siringa, mentre l’uomo piegava la testa di lato per osservarlo con gli occhi azzurri socchiusi. Poi con un’occhiata veloce controllò la consolle… e quel gesto, il modo di muovere il corpo, con la mano che stringeva il bordo del panchetto, fecero capire a Miles chi aveva di fronte, anche se l’uomo non assomigliava al capitano Galeni, se non forse per il pallore della pelle. Capelli grigi tagliati corti, sessant’anni circa, il viso solcato dalle rughe, il corpo appesantito dall’età che non era certo di un atleta o di chi stava all’aria aperta. Indossava abiti terrestri di foggia tradizionale, uno stile del tutto diverso dai miscugli storici che Miles aveva ammirato al centro commerciale. Aveva l’aspetto di un uomo d’affari o di un professore, non certo quello di un pericoloso terrorista.

Se non fosse stato per la tensione omicida, quella posizione delle mani, le narici dilatate, la linea dura della bocca e la rigidità del collo, Ser Galen e Duv Galeni sarebbero stati una cosa sola.

Galen si alzò e girò intorno a Miles con l’aria di chi studia la scultura di un artista mediocre. Miles rimase rigido e immobile, sentendosi sporco, trasandato e più piccolo del solito, con le sole calze ai piedi. Era finalmente arrivato al punto focale, al centro da cui erano partiti tutti i suoi guai delle settimane precedenti. E il centro era quell’uomo, che gli girava intorno con gli occhi pieni di odio. O forse sia lui che Galen erano dei centri, come i fuochi gemelli di un’ellisse, riuniti e sovrapposti per creare, alla fine, un cerchio diabolico e perfetto.

Miles si sentì molto piccolo e molto fragile. Galen poteva anche cominciare spezzandogli le braccia, con la stessa espressione nervosa e assente con cui Elli Quinn si mordicchiava le unghie, solo per allentare la tensione. Ma mi vede davvero? O non sono che un oggetto, un simbolo che rappresenta il nemico… mi ucciderà soltanto per amor di allegoria?

«Dunque» disse Ser Galen, «ecco finalmente l’originale. Non c’è nulla di così impressionante che spieghi come ha potuto sedurre mio figlio accaparrandosi la sua lealtà. Che cosa ci vede in lei? Però rappresenta molto bene Barrayar. Il figlio mostro di un padre mostro, il genotipo morale segreto di Aral Vorkosigan fatto carne, perché tutti lo vedano. Forse, dopo tutto, c’è un po’ di giustizia nell’universo.»

«Molto poetico» ridacchiò Miles, «ma biologicamente inesatto, come lei ben sa, visto che mi ha clonato.»

Galen sorrise acido. «Non insisterò sulla cosa.» Terminò il giro e fissò Miles. «Immagino che lei non potesse opporsi alla sua nascita, ma perché non si è mai rivoltato contro quel mostro? È luì che l’ha fatta com’è…» proseguì con un ampio gesto della mano ad indicare il corpo ridotto e storpio di Miles. «Quale carisma da dittatore possiede quell’uomo, da riuscire ad ipnotizzare non solo il suo stesso figlio, ma anche quelli degli altri?» La figura stesa a terra nell’oloschermo parve becchettare un occhio di Galen. «Perché lo segue? Perché lo segue David? Quale gioia perversa e corrotta potrà mai ricavare mio figlio infilandosi in un’uniforme barrayarana e marciando dietro Vorkosigan?» Galen non era molto bravo a fingere l’ironia, sotto sotto traspariva l’angoscia.

«Tanto per dirne una, mio padre non mi ha mai abbandonato di fronte al nemico» sbottò Miles, furente.

Galen sollevò di scatto la testa, abbandonando del tutto l’atteggiamento ironico, si girò e si diresse verso lo sgabello per prendere la siringa.

Miles maledisse in silenzio la sua linguaccia. Se non fosse stato per quello stupido impulso di avere l’ultima parola, di ribattere allo scherno, avrebbe potuto lasciare che l’altro continuasse a parlare, e avrebbe scoperto qualcosa. Invece adesso a parlare sarebbe stato lui e Galen avrebbe avuto tutte le informazioni.

Le due guardie lo afferrarono per i gomiti e quello di sinistra gli tirò su la manica: ecco, era arrivato il momento. Galen premette la siringa sulla vena all’interno del gomito… un sibilo, una puntura. «Che cos’è?» ebbe appena il tempo di chiedere Miles, con una voce che suonò nervosa e debole alle sue stesse orecchie.

«Penta-rapido, naturalmente» rispose Galen tranquillo.

Miles non ne fu sorpreso, anche se avvertì un brivido, sapendo quello che lo aspettava. Aveva studiato la farmacologia, gli effetti e l’uso corretto del penta-rapido al corso della Sicurezza dell’Accademia Imperiale Barrayarana. Era la droga in uso per gli interrogatori non solo nel Servizio Imperiale, ma in tutta la galassia: il siero della verità, praticamente perfetto, irresistibile, innocuo per il soggetto anche dopo somministrazioni ripetute. Irresistibile e innocuo, tranne per quei pochi sfortunati che avevano una reazione naturale o indotta artificialmente a quella droga. Miles non era mai stato considerato come candidato per il condizionamento indotto, dal momento che la sua persona era ritenuta più importante di qualunque informazione segreta potesse conoscere. Altri agenti dello spionaggio non erano altrettanto fortunati. Lo shock anafilattico era una morte ancor meno eroica della camera di disintegrazione che si riservava in genere alle spie prigioniere.

Impotente, Miles attese di cominciare a cantare. L’ammiraglio Naismith aveva assistito a più di un interrogatorio con il penta-rapido: la droga spazzava via tutti i freni inibitori in un mare di benevolenza, buoni sentimenti e allegria. Era divertente da guardare… su qualcun altro. Ancora pochi istanti e sarebbe stato ridotto alla più ciarliera idiozia.

Pensò al risoluto capitano Galeni ridotto in quello stato vergognoso. Per quattro volte di fila, aveva detto… non c’era da stupirsi se era un po’ teso.

Miles sentì il cuore accelerare i battiti, come se avesse ingerito una dose troppo massiccia di caffeina; la vista gli si acutizzò in modo quasi doloroso, i contorni di tutti gli oggetti della stanza presero a brillare e le masse che racchiudevano divennero palpabili ai suoi sensi sovreccitati. Galen, poco discosto dalla finestra pulsante, era un diagramma elettrico vivo, e pericoloso, un voltaggio mortale sovraccarico in attesa di un pretesto per scaricarsi.

No, non era allegro.

Stava per avere uno shock anafilattico naturale. Miles trasse il suo ultimo respiro. Chissà se il suo inquisitore si sarebbe sorpreso…

Fu invece lui ad essere sorpreso, quando si accorse che continuava ad ansimare… niente shock anafilattico, dunque, solo un’altra delle sue maledette reazioni idiosincratiche alle droghe. C’era almeno da sperare che quella non gli provocasse il genere di allucinazioni che gli aveva dato quell’accidente di un sedativo somministratogli una volta da un medico ignaro. Ebbe voglia di urlare. I suoi occhi guizzarono per seguire anche il minimo movimento di Galen.

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